di Alessandro Margiotta – Segretario Nazionale del Sindacato Nazionale Finanzieri
Sono ormai anni che mi occupo del monitoraggio del contenzioso amministrativo e giurisdizionale su provvedimenti di interesse del personale del comparto sicurezza e, in particolare, della Guardia di Finanza. Gli esiti di questo monitoraggio hanno fatto emergere a volte, quale elemento di criticità, una persistente resistenza delle Amministrazioni o degli Enti rispetto ad orientamenti in linea di massima consolidatisi da parte degli organi giurisdizionali e favorevoli ai ricorrenti.
In linea generale, ognuno di noi, in qualità di cittadino, ha avuto una qualche occasione di “imbattersi” in un provvedimento amministrativo emesso da un organo dello Stato, da un Ente locale, da una Amministrazione pubblica, sia su propria istanza che d’ufficio.
Sin qui tutto normale, se non fosse che non sempre le legittime aspettative di chi presenta una qualsiasi istanza ad una pubblica Amministrazione o di chi viene “colpito”, suo malgrado, da un provvedimento amministrativo vengono rispettate.
Le aspettative sono sempre quelle che un determinato diritto venga riconosciuto o che venga rispettato l’interesse legittimo affinché vengano seguite norme e procedure che regolano i procedimenti amministrativi in generale.
Ma ciò non sempre accade, o perlomeno non sempre l’iter logico seguito nell’emanazione del provvedimento amministrativo è sufficientemente chiaro da rendere evidente la legittimità dell’atto emesso.
Ed ecco che ci si imbatte nella fantomatica clausola delle impugnative di rito: “avverso il presente atto potrà essere esperito ricorso……”.
Ci si trova quindi di fronte al dubbio amletico se proporre ricorso (amministrativo o giurisdizionale), in alcuni casi sostenendone spese rilevanti (ricorso giurisdizionale), oppure prestare acquiescenza, accettare il provvedimento e “farsene una ragione”.
Nel primo caso, i più cauti prendono la via di un ricorso amministrativo (gerarchico o straordinario al Presidente della Repubblica) a “costo zero” nel caso del ricorso gerarchico e soggetto solo al pagamento del contributo unificato per il ricorso straordinario, confidando in un suo buon esito, mentre i più audaci scelgono di seguire il “percorso di guerra” del ricorso giurisdizionale, pronti a sostenerne le spese per il patrocinio legale obbligatorio e sperando nella decisione favorevole di un organismo terzo rispetto all’Amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato.
Ma anche sin qui tutto normale.
E’ in questa fase che si misura il grado di “flessibilità” dell’azione amministrativa, della capacità o volontà dell’Amministrazione di agire in via di autotutela annullando i propri provvedimenti affetti da vizi di legittimità o di merito, ovvero di resistere alle impugnazioni nella convinzione della piena correttezza dei propri atti emanati.
In un “mondo amministrativo perfetto” ci si aspetta che l’Amministrazione pubblica sia in grado di riconoscere i propri eventuali errori, ponendovi rimedio autonomamente o a seguito della decisione negativa su un ricorso amministrativo o giurisdizionale.
E’ in questa fase però che non tutto è normale.
Si verifica infatti spesso che l’Amministrazione pubblica scelga di resistere al gravame, pur in presenza di vizi che inficerebbero irrimediabilmente i provvedimenti emessi e che dovrebbero indurre a “desistere” più che a “resistere”, rispettando i principi generali di trasparenza, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, piuttosto che perseverare in un ingiustificabile “orgoglio amministrativo”.
Di tale ultimo approccio si nutre il perdurante contenzioso amministrativo e giurisdizionale che tanto incerta rende l’azione amministrativa, soprattutto quando diventa ossessionatamente ripetitiva nei propri errori, inducendo gli organi deputati a decidere della congruità o legittimità degli atti emessi a richiamare più volte decreti, sentenze od ordinanze già emesse nelle stesse materie e per le stesse fattispecie.
In questo quadro, se posso comprendere la volontà dell’Amministrazione pubblica di “consolidare” l’azione amministrativa, con “legittime resistenze”, soprattutto quando i suoi provvedimenti tendono a tutelare la posizione giuridica dei terzi rispetto ai diretti interessati, quello che ritengo assolutamente ingiustificabile è il voler spesso “rinviare” alla fase di definizione in ultimo grado del contenzioso (Presidente della Repubblica, Consiglio di Stato o Corte dei Conti d’Appello) decisioni che potrebbero benissimo essere assunte in via di autotutela o, al limite, anche in primo grado di giudizio.
Accade infatti che istanze di parte vengano irragionevolmente rigettate, pur nella consapevolezza (per consolidata giurisprudenza) che in caso di ricorso i relativi provvedimenti negativi verrebbero quasi certamente annullati e che le Amministrazioni scelgano di appellare in secondo grado decisioni a queste sfavorevoli, al solo scopo di ritardare l’adozione dei conseguenti atti amministrativi legittimi. Ne sono un esempio eclatante le vertenze avviate per anni dinanzi alla Corte dei Conti per la corretta applicazione dell’articolo 54 del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, per il riconoscimento della aliquota più favorevole per il personale militare in tema di pensioni, come anche il contenzioso ancora in atto dinanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali ed al Consiglio di Stato per il riconoscimento dei cosiddetti 6 scatti stipendiali per il personale militare congedato a domanda contemplati dall’art. 6-bis del decreto legge n. 387/1987.
A nulla serve, in merito, accampare giustificazioni connesse con il divieto di estensione del giudicato, pur normativamente previsto, o il mancato consolidamento della giurisprudenza per le stesse fattispecie. Difatti, la prima preclusione normativa non esclude affatto che l’Amministrazione pubblica possa rivedere il proprio modus operandi e gli indirizzi sino a quel momento assunti, perfezionando per il futuro la propria azione amministrativa, così come l’esistenza di residuali decisioni in favore dell’Amministrazione non legittimano di per sé l’emanazione di provvedimenti non in linea con un più corposo e contrario orientamento giurisprudenziale.
Per altro, effetti indotti di tale mero “orgoglio amministrativo” sono non solo il fatto che i diretti interessati sono costretti a sostenere spese di giudizio di cui farebbero volentieri a meno, soprattutto in una congiuntura economica e finanziaria come quella attuale, ma anche il danno derivante per l’erario in conseguenza della condanna spesso dell’Amministrazione pubblica al pagamento delle menzionate spese di giudizio nei casi di sentenze a questa sfavorevoli.
Occorre dire che per anni il legislatore ha cercato di porre rimedio a prassi amministrative irragionevoli, attualizzando ed implementando le norme sulla trasparenza amministrativa (Legge n. 241/1990), ma ritengo che l’obiettivo di un “mondo amministrativo perfetto” sia ancora lontano, compromesso da un approccio ancora rigido delle pubbliche Amministrazioni, soprattutto in un regime di sostanziale irresponsabilità che conduce a persistere in “liti temerarie” in danno dello Stato e dei cittadini.
Alessandro Margiotta – Segretario Nazionale del Sindacato Nazionale Finanzieri