di Luigi Quadro*
Per oltre un quarantennio le aspettative di vedersi riconoscere i propri diritti e la partecipazione alla contrattazione sono state affidate alla Rappresentanza Militare, in ogni ordine e grado, organismo, come ben noto a tutti, con funzioni esclusivamente consultive e propositive, pertanto, di fatto “assoggettata” alla Gerarchia.
Tutte le restrizioni finora poste ai finanzieri nell’esercizio dei loro diritti ed agli stessi Organismi di Rappresentanza trovano la loro giustificazione nella natura e nei compiti militari della GdF.
Ciò, però, a parere dello scrivente, non è condivisibile.
Infatti, contrariamente a quanto si voglia affermare, la natura “civile” della GdF emerge già dal D.Lgs. 68/2001 che, infatti, definisce l’Amministrazione “forza di polizia” e, sebbene ad “ordinamento militare”, la citata normativa stabilisce che la GdF ha funzioni di polizia con competenza generale in materia economico-finanziaria sulla base delle peculiari prerogative conferite dalla legge.
Inoltre, pare opportuno evidenziare che con il D.Lgs. 177/2016 il Corpo è stato interessato dalla razionalizzazione delle funzioni di polizia, ricomprendendo la GdF tra i corpi di polizia ed attribuendole in via preminente o esclusiva funzioni di polizia.
Tale riconduzione nell’alveo delle polizie è ancora più importante se si considera che il Codice dell’Ordinamento Militare emanato con il D.Lgs 66/2010 non inserisce la GdF tra le forze armate di cui al titolo V.
In realtà, la GdF svolge, in concreto, attività di polizia, sebbene i finanzieri ricevano anche una formazione militare e a nulla rileva la partecipazione della GdF a missioni estere in territori di guerra in quanto il Corpo, anche in questi teatri internazionali, si occupa di funzioni di polizia, quali addestramento, servizi logistici, formativi, di manutenzione delle unità navali etc.
E’ chiaro, quindi, che la GdF esercita esclusivamente attività legate alla tutela economico-finanziaria e dell’ordine e sicurezza pubblica.
In questo scenario fa il suo ingresso la questione dei sindacati “militari” che ha scatenato una pletora di affermazioni e dichiarazioni che, sebbene normali in un sano dibattito democratico, seppur aspre e forti, si sono, invece, trasformate, spesso, in attacchi personali, offese se non addirittura diffamazioni del tutto ingiustificate.
Credo che per una corretta formazione delle opinioni sia necessario riportare le notizie e gli accadimenti senza condimenti ed interpretazioni soggettive.
Con l’epocale sentenza n° 120/2018, la Consulta ha dichiarato “…l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in quanto prevede che “I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”.
Con tale sentenza la Corte Costituzionale ha completamente rivisto il proprio orientamento sulla questione dei sindacati militari, espresso con la sentenza 449 del 1999 con la quale esprimeva “non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare)”, cioè proprio la norma di legge che vietava ai militari la costituzione di “associazioni professionali a carattere sindacale”.
Come mai la Consulta ha cambiato idea? Diciamolo chiaramente, lo ha fatto perché “obbligata” dai trattati europei che impongono la ratifica nell’ordinamento nazionale delle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che sulla vicenda ha emesso due sentenze (Matelly contro Francia e Association de Défense des Droits des Militaires – ADefDroMil contro Francia).
In sostanza la CEDU ha stabilito, in entrambi i casi, che “la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto”.
Se volessimo sintetizzare, possiamo scrivere che la CEDU ha detto OK alle restrizioni per i sindacati militari ma NO alla negazione del diritto di esistere.
In un paese “normalmente” democratico, basato su un sano dibattito politico, ci si sarebbe aspettato il “rispetto” della Sentenza della Suprema Corte da parte di amministrazioni deputate esse stesse alla vigilanza sul rispetto delle norme, nonché la sua immediata esecuzione ed attuazione, trattandosi di una sentenza “additiva”.
La Corte, infatti, in questo caso specifico, non si è limitata, come di solito, a fornire il proprio parere sulla incostituzionalità o meno di una disposizione o di una legge, ma, eccezionalmente, ha fornito esatte indicazioni, seppure per certi aspetti non pienamente condivisibili.
Tuttavia, si è dovuti attendere quasi un anno per vedere la nascita delle prime organizzazioni sindacali che, tuttavia, hanno dovuto osservare “disposizioni circolamentari” e non una legge, creando confusione e sconforto per il mancato rispetto della sentenza della Corte Suprema e per “pareri” forniti da altri organismi dello stato appositamente interpellati che hanno dato origine a “circolari” discutibili se raffrontate al contenuto di una sentenza che, come detto, conteneva in sé già l’autorizzazione a costituirsi come sindacato.
Ciononostante, la tenacia di coloro che hanno sempre creduto e sperato in un cambio di marcia ha portato alla nascita dei sindacati militari, un avvio già in se “anomalo”, poiché doveva superare il c.d. preventivo assenso e, solo dopo, “operare” secondo le “restrizioni” preventivamente imposte ai sindacati militari.
A tutt’oggi si assiste ancora ad una resistenza passiva da parte di tutte le amministrazioni militari e a ordinamento militare, che ostacolano l’esercizio democratico delle relazioni sindacali e lo stesso Ministro della Difesa, forzatamente, opera con una circolare una restrizione contra legem limitando le relazioni sindacali solo a livello centrale.
Per farla breve:
- La Corte Costituzionale non ha potuto non sentenziare diversamente, sulla scorta degli orientamenti europei citati;
- Il Ministro della Difesa non ha potuto non fornire l’assenso, se rispettati i requisiti previsti dalle organizzazioni richiedenti;
- Le amministrazioni militari o ad ordinamento militare non potevano non autorizzare le organizzazioni che rispettavano i requisiti richiesti;
- Il Parlamento non poteva non interessare le commissioni camerali per lo studio di un’apposita legge che regolasse la materia del contendere.
Insomma, ognuno è stato costretto dagli eventi ma è di tutta evidenza che tutti avrebbero volentieri ignorato l’argomento, come hanno fatto per oltre 40 anni, fornendo si l’assenso, ma rendendo le nuove organizzazioni sindacali di fatto “zoppe”, con un potere d’azione limitato ed un ostruzionismo da parte delle amministrazioni centrali.
Con tali metodologie è perfettamente rispettato l’atteggiamento tutto italiano di dire si, ma di non consentire, in realtà, di fare.
Una domanda sorge spontanea, fanno davvero tanta paura le organizzazioni sindacali, se si, perché e a chi?
*Luigi Quadro (socio co-fondatore del Sinafi e Referente Regionale per la Campania)