Anche per chi vive quotidianamente l’ambiente delle caserme è difficile comprendere appieno come si sia potuti arrivare ad una situazione come quella che viene raccontata per i fatti di Piacenza.
Ci ha colto nell’immediato un misto tra stupore, amarezza e rabbia, ma poi inevitabilmente il pensiero si è rivolto al tentativo di dare una spiegazione, di comprendere cosa possa aver permesso o determinato una tale realtà.
La verità è che quello che è successo può essere analizzato da diversi punti di vista: quello della magistratura, della politica, dell’opinione pubblica…
Poi c’è il nostro punto di vista, quello di coloro che, a differenza degli altri, possono fornire un’analisi basata sull’esperienza diretta, su ciò che quotidianamente vivono.
E ci viene da sorridere quasi, quando leggiamo o ascoltiamo da “altri” spiegazioni che richiamano concetti a noi noti come il carrierismo, gli encomi, lo spirito di corpo e le aggregazioni che si creano in certi ambienti. Notoriamente, in certi ambienti di lavoro si costruiscono alleanze e collaborazioni privilegiate basate anche sulla mera simpatia, sulle convenienze e sull’amicizia.
Perché, diciamoci la verità, ne siamo tutti un po’ vittime o protagonisti.
Anche ricondurre esclusivamente a questi elementi fatti di una tale gravità ci lascia un po’ di sconcerto; non che non possa essere una lettura corretta, ma la nostra attenzione è catturata da una domanda, che da più parti è stata posta: come sia possibile che nessuno all’interno se ne sia accorto, come mai nessuno è riuscito ad impedire la creazione di un sistema consolidato.
E’ questa la domanda che ognuno di noi si è posto: chi o cosa lo abbia permesso, più che chi o cosa lo abbia provocato.
Quali sono i meccanismi che consentono di arrivare a un punto di non ritorno o quali sono i meccanismi che non lo impediscono.
Le strutture organizzative gerarchico piramidali come le nostre prevedono per definizione una rigida suddivisione dei compiti e una scala di controlli che dal basso risale verso il vertice, da cui difficilmente qualcosa può restare fuori; a ciò si aggiungono obblighi e doveri propri delle nostre organizzazioni che dovrebbero, da soli, scongiurare simili deviazioni.
Invece noi sappiamo che non è così, sappiamo che spesso gli stessi strumenti che dovrebbero costituire presidio alla standardizzazione delle procedure e con esse della vita stessa di caserma, possono divenire il terreno fertile per distorsioni proprie di un sistema tanto rigido.
Questo accade perché accanto ad un sistema di norme che regolano ogni aspetto delle nostre vite, anche private, vigono tante regole non scritte, la prima delle quali è: non creare problemi.
Una caserma in cui non si rilevano criticità è una caserma dove c’è un ottimo comandante di uomini e mezzi e il merito va a moltiplicarsi per ogni gradino della scala gerarchica, con buona pace di chi e di cosa si vive all’interno.
La regola non scritta del non creare problemi.
Ognuno al proprio livello deve contribuire e poco importa se ci si ritrova schiacciati tra un “non vedo” e un “non posso vedere”, o, ancor peggio, un “non devo vedere”.
Non è carrierismo, non può esserlo per tutti gli attori sulla scena. E’ forse, invece, il rispetto di quelle regole non scritte che ti permettono di stare tra coloro che contribuiscono alla stabilità di un sistema basato sulla lealtà e piena fiducia nei confronti della gerarchia o una tendenza a conformarsi nell’accettazione dell’autorità? E poi c’è la paura.
Perché la verità potrebbe risiedere proprio nel fatto che in tanti casi colui che segnala ipotesi corruttive interne, aggregazioni per commettere fatti illeciti o anche semplici inefficienze si possa trovare a dover fare i conti con una duplice realtà: da un lato la diffidenza e spesso l’ostilità di quella parte di gerarchia che potrebbe non apprezzare, dall’altro il vuoto che si crea intorno al collega, che diventa il simbolo di chi ha voluto minare un sistema ormai collaudato, che, per quanto possa apparire rigido e forse proprio per quello, è comunque fonte di sicurezza, anche psicologica e, in quanto tale, va difeso.
Il dibattito si è, dunque, focalizzato sulla necessità di un sistema di tutela per chi denuncia.
Ebbene, il Piano triennale per la prevenzione della corruzione e della trasparenza della Guardia di Finanza, ad esempio, si pone l’obiettivo di “mantenere altissima la guardia avverso i rischi corruttivi che possono minacciare, in forma diretta ma anche subdola, i propri appartenenti” e ci rammenta che abbiamo a disposizione lo strumento del whistleblower, per cui il pubblico dipendente che denuncia “condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, determinata dalla segnalazione”.
Una regola scritta, una regola a nostra tutela.
Ma ci sono sempre le regole non scritte a latere di quelle scritte, per cui è sufficiente la laconica frase “per esigenze di servizio”, dietro cui può celarsi qualsiasi altra motivazione, per ritrovarsi trasferiti.
Credo che questo tentativo di ricostruzione abbia attraversato le menti di tanti uomini e donne che indossano un’uniforme, protagonisti involontari o solo spettatori di situazioni, seppur lontane dai gravi fatti denunciati a Piacenza, in cui si sono imbattuti negli anni.
Ecco dunque che il pensiero corre verso un altro tema che occupa il dibattito di questi giorni e che è legato a filo doppio a tutto ciò fin qui detto: il processo di sindacalizzazione e, quindi, di democratizzazione di questi Corpi armati.
Come può non apparire paradossale sentire le voci della politica e dei vertici delle Amministrazioni che, con riferimento alla norma sulla sindacalizzazione, affermano che non è possibile soddisfare appieno le richieste delle organizzazioni sindacali perché c’è il rischio che elementi propri, su cui si basa la stabilità di tutto il sistema, vengano irrimediabilmente compromessi?
Cosa andrebbe compromesso? Un sistema che non riesce a impedire fatti del genere? O è proprio il timore che quelle regole non scritte possano non essere più rispettate e che vengano allo scoperto le inefficienze di amministrazioni che si rifiutano di avviare un processo di modernizzazione e cambiamento culturale anche e soprattutto nella leadership?
Questo sì, allora, che cambierebbe il corso di molte carriere!
Lasciamo aperta la domanda, nella piena consapevolezza che questo dibattito ci impegnerà ancora per molti anni prima di giungere a importanti cambiamenti.
*Segretario Nazionale SINAFI – Sindacato Nazionale Finanzieri